
Alla fine di febbraio in Italia si è alzato un sipario su una tragedia: "INFEZIONE DA SARS-CoV-2" meglio conosciuta come CODIV-19. Una tragedia che ci tiene bloccati e separati gli uni dagli altri ma costretti a seguirne gli atti, le vicissitudini, i bollettini di morte, tutto ciò che viene rappresentato, commentato, interpretato non è di nostro gradimento ma non possiamo alzarci e lasciare la platea, in tutto il mondo si recita la stessa tragedia.
All’inizio sembrava che questo virus impazzito sconosciuto colpisse le persone anziane e di fatto morivano e muoiono gli ultraottantenni con patologie pregresse. Sembrava un fatto quasi accettabile, normale dopotutto si tratta di persone sulla soglia dell’addio alla vita.
Penso allora a mio padre, combattente novantenne, allo zio lucidissimo e presente, alla zia ricoverata in clinica riabilitativa e isolata dal mondo dei suoi affetti, ai suoceri di mio fratello anche loro novantenni che ci regalano attimi di gioia e di infinita accoglienza, alle mie amiche ottantenni, alla loro saggezza, al loro sostegno e, mi chiedo, se la loro vita è meno importante.
Si muore in trincea, lontano dai propri cari, in isolamento affidandosi alla compassione di un’ ultima carezza del sanitario. L’dea del loro morire così è per me dolorosissima non lo nego.
Io che sono nata e vissuta nei primi 13 anni della mia vita in un piccolo borgo della Sila Piccola tra dolci montagne e cieli stellati, ho conosciuto e vissuto il passaggio dalla vita alla morte delle persone ma, il rito del trapasso era un evento dell’umano accadere dove tutti proprio tutti potevano far visita alla persona morente e partecipare al commiato e poi al funerale Tra i riti più significativi c’era quello di "portare il lutto": le donne più intime vestivano di nero, i maschi cravatta e bottone, per le donne, parenti lontane , la maglia nera , i bimbi un piccolo fiocco. La famiglia colpita veniva coccolata con cibi e cose buone da mangiare e poi c’era il rito del cordoglio gli amici e parenti fino al "trigesimo" andavano a portare il loro conforto, la loro presenza.
Tutto questo aveva dei forti significati ed aiutava all’elaborazione del lutto, aiutava la consapevolezza e l’accettazione della perdita e aumentava il senso di appartenere ad una comunità. La morte era circondata da gesti simbolici, non bastava una benedizione, le locandine nei piccoli centri, gli annunci sul giornale nelle grandi città accompagnavano la separazione del defunto con compassione, attenzione, venerazione perché ognuno di noi a qualsiasi età è parte del Tutto.
Oggi, mi domando, che tipo di sofferenza può creare il distanziamento, l’isolamento della persona affetta da coronavirus e poi nelle estreme conseguenze cosa sentono e vivono le persone che non solo hanno perso i propri cari di qualunque età ma debbono rinviare l’ultimo saluto terreno. Il lutto ai tempi del coronavirus è una perdita per decesso, che rinvia le emozioni, complica la separazione, sospende il rito e la ritualità e non consente l’elaborazione del lutto e la "riorganizzazione" dopo i vissuti della sofferenza e del dolore. Con umana partecipazione osservo qualche minuto di intenso e consapevole silenzio!!!